Psicoterapia Cognitivo Neuropsicologica

 

La Psicoterapia Cognitivo Neuropsicologica (PCN) è una naturale evoluzione della psicoterapia cognitiva. In particolare, questo approccio coniuga i recenti sviluppi delle neuroscienze, della psicologia dello sviluppo e della psicopatologia in un quadro teorico unitario. Mentre la PCN continua a condividere con la tradizione cognitivista i due presupposti di base che ne hanno caratterizzato la nascita e lo sviluppo, e che la differenziano da altri approcci psicoterapeutici, ossia l'interdisciplinarietà e la tendenza alla verificabilità empirica, rispetto alla terapia cognitiva standard e a quella cognitivocostruttivista, la PCN prevede però significative differenze teoriche, cliniche e metodologiche.
Queste differenze conseguono non solo alle nuove evidenze scientifiche circa lo sviluppo del Sé – sia in ambito psicologico sia neuroscientifico - ma anche al fatto che la tradizionale visione cartesiano-kantiana dell’essere umano, a partire dalla quale il cognitivismo standard e quello costruttivista cercano di studiare la psicopatologia e la cura, si è ormai dimostrata inadeguata a riunire in un quadro teorico coerente e unitario
le recenti evidenze sperimentali sopraccitate, e che confermano la natura basicamente incarnata, situata e storica dell’essere umano. Per rendere adeguatamente conto dello sviluppo individuale, delle trasformazioni psicopatologiche e delle procedure terapeutiche, risulta necessario adottare una visione dell’essere umano più complessa (non più l’ uomo come complessità auto-organizzata, ma l’ uomo come essere basicamente
storico, incarnato e situato, così come la tradizione fenomenologica ha sempre sostenuto). Inoltre, il progressivo avanzamento teorico e speculativo di un insieme di approcci filosofici e umanistici (es.: fenomenologia, ermeneutica, semiologia ecc.), impone un confronto sempre più serrato e costruttivo tra le scienze naturali e quelle interpretative; la necessità di questo confronto nasce anche dal fatto che proprio le
neuroscienze tendono a rivolgersi sempre più agli approcci ermeneutico-fenomenologici per dare un senso compiuto a diversi risultati delle loro ricerche (Leidlmair, After Cognitivism, 2010; Gallese, 2011, 2010; Gallagher, How the body shapes the mind, 2005; Gallagher & Zahavy, The phenomenological mind, 2008; Rizzolatti & Sinigaglia, So quel che fai, 2006).
Da qui la necessità di ripensare alcuni fondamenti teorici e metodologici circa l’essere umano, al fine di rendere conto di una visione complessa e multidisciplinare dello sviluppo, della psicopatologia e della cura.

 

La Psicoterapia Cognitivo Neuropsicologica è un modello di cura della psicopatologia la cui teoria consegue alla mediazione tra i linguaggi specialistici delle diacipline che studiano l’uomo in terza persona, e quindi adottano il metodo della scienza naturale (es.: psicologia sperimentale, psicologia dello sviluppo, psicopatologia, neuroscienze ecc.), e quelle che studiano l’essere umano attraverso i suoi propri modi esistenziali, siano essi esperienziali o narrativi (approccio in prima persona). Lo studio dell’essere umano in prima persona, quindi come individuo e non come cosa/processo, consegue anche al fatto che il clinico (psicoterapeuta o psichiatra) si trova ogni volta a curare un paziente la cui patologia risulta comprensibile soltanto a partire dalla sua specifica storia di vita, e dagli specifici accadimenti esistenziali (siano essi frutto di accidenti organici/non storici, siano essi motivi psicologici/storici). Il progressivo sviluppo di un insieme di discipline che studiano la fattiva esperienza del singolo essere umano nei suoi irriducibili modi di essere (es.: fenomenologia dell’esperienza, psicologia della soggettività, ermeneutica della storia del sé ecc.), rende oggi possibile una migliore comprensione sia dello sviluppo normativo, sia della psicopatologia e dei modi terapeutici.

La possibilità di far coerentemente dialogare la ricerca neuroscientifica con quella psicologica all’ interno di un quadro esplicativo ermeneutico-fenomenologico, risulta fattibile anche grazie al contributo della neuro-psicologia. Da questo punto di vista siamo di nuovo di fronte all’ interdisciplinarietà e alla necessità di un dialogo scientifico costruttivo e non riduttivista tra le discipline che appartengono al novero della scienza naturale, e quelle che appartengono alla famiglia delle scienze umane. Si tratta, naturalmente, di evitare qualsiasi vetusto dualismo cartesiano, poiché il fenomeno da comprendere e spiegare in natura è Uno: l’individuo e i suoi modi di essere. Proprio per questo, in senso ermeneutico, si assume una posizione definibile come dualismo semantico.

Neuro-psicologico è il metodo per realizzare la traduzione tra i diversi linguaggi specialistici dell’area biologica e di quella psicologico/fenomenologica. Traduzione scientifica significa impossibilità di ridurre tout-court il linguaggio psicologico a quello biologico e viceversa (non riduzionismo). Si tratta di una prospettiva ermeneutica secondo una duplice direzione, rispettivamente di tipo teorico e di ordine tecnico-applicativo: 1) livello teorico: realizza il dialogo tra discipline specialistiche che cercano di dire diversamente, ognuna nel suo linguaggio, «quasi» la stessa cosa, ossia un fenomeno che in natura è uno: il «Chi?» e suoi modi di essere nell’ azione, nella passione e nel racconto. 2) Livello tecnico-applicativo: fornisce un metodo di base per l’articolazione di una tecnica psicoterapeutica fondata su presupposti ermeneutici e semiotici.

Infine, circa la diagnostica, l’ intera psicopatologia va considerata come parte della più ampia neuropsicopatologia, poiché l’ alterazione dell’ identità personale può conseguire sia al nostro essere un corpo tra i corpi, sempre soggetto alle leggi della natura, sia alle peculiari modalità attraverso le quali diamo verbo alla carne – riconfiguriamo l’ esperienza in racconto.

 

 

STORIA: I MODELLI RAZIONALISTI DELL’ ESSERE UMANO DELLA PSICOPATOLOGIA E DELLA CURA SECONDO IL PRIMO COGNITIVISMO (COGNITIVISMO RAZIONALISTA STANDARD E COGNITIVISMO RAZIONALISTA COSTRUTTIVISTA)


L' uomo del primo cognitivismo è, tout court, "l’ essere riflessivo" delle filosofie razionaliste cartesiano-kantiane e, successivamente, neo-kantiane e neopositiviste. L’ idea di fondo che sottende questa visione dell’ essere umano è perlopiù centrata sulla natura riflessiva e razionale di quest’ ultimo, fino all’ idea, oggi non più sostenibile, che l’esperienza umana sia "muta" in assenza di una rappresentazione mentale/riflessiva che la colga come oggetto. I modelli mentali del primo cognitivismo sono articolabili secondo schematizzazione logica, e l’ uomo del primo cognitivismo è perlopiù un essere umano decontestualizzato, disincarnato (non embodied) e de-storicizzato (non-embedded). In quest’ ottica la mente umana funziona come un trasduttore in grado di adeguare il pensiero alla realtà, secondo il vecchio adagio razionalista dell’ adaequatio rei et intellectus. Oltre a Cartesio e, soprattutto, a Kant, questo approccio teorico deve parte della sua impostazione di fondo a Lotze (1817-1881), al neokantismo delle scuole di Marburgo (Cohen, Natorp, Hartmann, Cassirer), e del Baden (Windelband, Rickert, Lask). Anche il neo-positivismo ha influenzato significativamente lo sfondo logico-razionalista del primo cognitivismo, con particolare riferimento alla necessità di mettere a punto modelli mentali del funzionamento umano che siano adeguatamente formalizzabili e, se il caso, riproducibili al calcolatore. Tra i primi psicoterapeuti a formalizzare la disciplina vanno ricordati Albert Ellis e Aaron Beck, non a torto considerati i padri fondatori del cognitivismo clinico. Le teorie di base del primo cognitivismo sono piuttosto semplici, e più che teorie del funzionamento mentale o modelli mentali veri e propri, esse sono piuttosto delle semplificazioni operative di questo o quell’ aspetto del comportamento umano. Dal punto di vista della scienza positiva, questo approccio è fortemente debitore alle ricerche della prima cibernetica e alle prime modellizzazioni mentali delle teorie cosiddette H.I.P. (human information processing), che, lo ricordiamo, derivano lo sfondo epistemologico-ontologico dell’ uomo che intendono studiare proprio dal neo-kantismo e dall’ empirismo logico. In effetti, partendo dall’ idea che la mente umana sia paragonabile a una macchina che elabora informazioni, la maggior parte di questi modelli prevede degli algoritmi razionali che traducono la stimolazione ambientale attraverso processi cognitivi riflessivi o meta-riflessivi (metacognizione), al fine di produrre questo o quel comportamento. La psicopatologia consegue a qualche alterazione della normale adeguazione della mente alla realtà. Ad esempio, i pazienti depressi sono tali perché pensano, erroneamente, secondo stili di pensiero depressivi e non coerenti con la realtà, oppure le pazienti anoressiche sono tali perché presentano delle distorsioni percettivo-semantiche sul loro reale peso corporeo, o sull’ estetica del loro corpo ecc. Proprio questa deriva cartesiano-kantiana ha impedito alla psicologia cognitiva tradizionale di far adeguatamente luce sulla natura dell’ esperienza umana, anzi, possiamo dire, sulla natura stessa dell’ essere umano. Non si tratta soltanto di far uscire l’ uomo dal laboratorio e riportarlo ai suoi contesti, per poterlo poi studiare nei suoi effettivi modi di essere, ma di una ormai superata visione razionalista dell’ esperienza umana, come se l’ esperienza che ognuno di noi fa in ogni istante della nostra vita fosse muta in assenza di qualche rappresentazione mentale che la cogliesse come oggetto.
Innanzitutto, per dovere storico, dobbiamo ricordare che la visione fondamentalmente razionale-riflessiva dell’ essere umano che la psicologia cognitiva ha fatto propria, era già stata rifiutata dai primi anni del secolo scorso dalla fenomenologia che aveva dimostrato, secondo logica, che il modello cognitivo-razionale dell’ uomo non era in grado di rendere adeguatamente conto del comportamento umano, essendo quest’ ultimo molto più complesso rispetto a qualsiasi modellizzazione cognitiva, ed essendo l’ esperienza e la cultura di appartenenza primarie rispetto alla singola riflessione cognitiva.
L’ aporia che consegue a questa visione razionale dell’ uomo è evidente; torniamo a Kant e al suo problema non risolto: la regressione all’ infinito. Se l’ unico modo per significare l’ esperienza è quello di oggettivarla come contenuto di qualcosa che è meta-esperienziale (ad esempio, il «Me»), cosa mi consente di conoscere questo Me? Detto in altri termini: “non mi è possibile conoscere come oggetto ciò che io devo presupporre per conoscere ogni oggetto” (Arciero, 2006, pag. 12).
A questo proposito, comunque, bisogna ricordare che ormai da alcuni anni proprio nell’ambito della ricerca di base in psicologia e nelle neuroscienze, si osserva una tendenza al superamento di questi modelli teorici che nell’ enfatizzare il ruolo della rappresentazione, finiscono per non contemplare i ruoli fondamentali della carne e della cultura ai fini di una fattiva comprensione dell’ essere umano. Ad esempio, già a livello fetale emergono dei comportamenti che sembrano dimostrare alcune competenze relazionali preriflessive (Castiello et al., 2010). Inoltre, già a partire dai primi mesi di vita il bambino sembra in grado di manifestare sentimenti di gelosia, imbarazzo e vergogna, e questo dato contraddice la visione classica dell’insorgenza delle emozioni cosiddette sociali come conseguenza della rappresentazione riflessiva di Sé (Reddy, 2009).
Uno sviluppo teorico (ma senza cambiamenti nella superata visione di fondo dell’ uomo come "cosa" pensante) è stato quello cosiddetto cognitivo-costruttivista, sebbene questo approccio non abbia mai ricevuto una particolare diffusione nel più vasto quadro della psicoterapia internazionale, non è riuscito a produrre ricerca empirica, e nemmeno si è dimostrato idoneo a dialogare proficuamente con le neuroscienze (Arciero, 2011). Infatti, la caratteristica fondamentale dell’ essere umano, nell’ ottica costruttivista, è la sua natura auto-referenziale; l’ essere umano è un sistema dotato di vincoli organizzativi e apertura strutturale. Nello specifico, ogni essere umano fa esperienza secondo i vincoli del proprio ordine sensoriale, e giunge a dare significato all’ esperienza attraverso un atto riflessivo. La dinamica tra l’«Io» che agisce ed esperisce, e il «Me» che dà significato all’ esperienza in corso, dà forma al «Sé». L’ auto-organizzazione del sistema corrisponde alla sua organizzazione di significato personale (O.S.P.). Secondo Vittorio Guidano (1944-1999), l’organizzazione di significato personale va intesa come un processo unitario di ordinamento la cui continuità e coerenza interna vanno ricercate nella specificità delle proprietà formali e strutturali del modo di elaborare la conoscenza (cioè: flessibilità, generatività, livello di astrazione ecc.). Questo modello teorico, pur presentando un piccolo progresso rispetto al meccanicismo cartesiano che contraddistingue certa psicologia cognitiva, presenta diversi problemi di ordine filosofico che conseguono ad alcune derive kantiane, e che possiamo riassumere nell’ adagio: “non ci sono fatti, solo interpretazioni”.
Questo assunto, che certa parte del costruttivismo ha fatto proprio, rappresenta una ritirata definitiva delle scienze umane dal mondo della vita, e favorisce quel drammatico atteggiamento di taluni terapeuti che sono convinti che si possa dire tutto e il contrario di tutto, giacché ciò che conta è solo il modo di raccontarsi le cose. Come se la vita fosse prima raccontata e solo in seguito vissuta!

 

 

GLI APPROCCI ERMENEUTICO-FENOMENOLOGICI, IL DIALOGO TRA LE SCIENZE ATTRAVERSO LA MEDIAZIONE NEURO-PSICOLOGICA E LO SVILUPPO DEL MODELLO COGNITIVO-NEUROPSICOLOGICO

 

Se cognitivismo significa, principalmente, rigore scientifico e interdisciplinarietà, non si vede il motivo per non fare propri due «sani» modi di fare scienza psicologica, tenendo però conto che questi due assunti di base nulla dicono circa la visione stessa dell’essere umano (il fondamento dal quale partire per far avanzare adeguatamente le teorie in psicologia, psicopatologia e psicoterapia). Proprio il costante riferimento alla ricerca di base è uno dei motivi che consentono al cognitivismo di evolversi continuamente, a volte anche attraverso bruschi cambiamenti paradigmatici oppure, come in questo caso, addirittura attraverso una radicale modificazione del modo stesso di intendere l’ oggetto di studio della psicologia e della psicoterapia. Seguendo il filone ermeneutico-fenomenologico, l’ oggetto di studio della PCN è un "Chi?", intendendo con questo che la metodologia più idonea per incontrare il paziente (per studiarlo, per poterlo realmente comprendere ecc.) non può più essere quella razionalista dei cognitivisti e dei costruttivisti, in base alla quale l’ essere umano viene studiato come fosse una "cosa" (macchina, processo o complessità auto-organizzata che sia). Non più l’ uomo cartesiano, che riduce il mondo a contenuti di coscienza, finendo così per sostituire all’ esperienza il pensiero dell’ esperienza. Non più l’ uomo kantiano, colui che nel cogliere il mondo attraverso le proprie categorie, finisce per cogliere sempre e solo le sue categorie. E' l' uomo incarnato e situato (embodied & embedded), colui al quale deve mirare una psicologia matura, una scienza del soggetto, della persona e del «Chi?».

Quest' uomo è il Dasein della differenza ontologica di Heidegger, del corpo che io sono di Merleau-Ponty, e dell' identità narrativa di Paul Ricoeur. E' l' uomo della fenomenologia-ermeneutica. Proprio grazie a questa visione dell’ essere umano, indubbiamente più complessa e articolata rispetto a quella meccanicistica degli approcci cognitivisti, è possibile rendere conto di alcune evidenze sperimentali che dimostrano che già a livello fetale emergono comportamenti complessi che appaiono costitutivi dell’ ipseità dell’ individuo, e che non possono essere derivati da alcuna competenza riflessiva-lingusitica.
Se la persona è un "Chi?", questo significa che non è possibile comprenderlo esaustivamente applicando al singolo essere umano una categoria esplicativa (es.: etichetta diagnostica, organizzazione di significato personale ecc.). Nello specifico, nessuna sofferenza individuale potrà essere compresa (e poi curata…) per mezzo della semplice categorizzazione diagnostica. Infatti, stabilito che una persona presenta tutti i sintomi della nevrosi ossessiva, e applicata la categoria in questione, il clinico avrà al massimo compreso una parte della medesimezza del paziente, ossia un insieme di regolarità comportamentali che lo caratterizzano a partire da un certo momento della sua vita. Inoltre, quando anche esistesse una identica eziopatogenesi della nevrosi ossessiva in tutti coloro che ne soffrono, le modalità di manifestazione della patologia non potranno che essere ogni volta, e per ogni singolo individuo, del tutto soggettive e comprensibili nel loro esordio e nel loro mantenimento nel più vasto quadro della specificità organismiche, storiche e culturali dell’individuo stesso.

Da qui la necessità del dialogo tra le discipline che studiano l' uomo in terza persona e quelle che studiano l' uomo in prima persona. Ad esempio, la psicopatologia, studiando gli universali della sofferenza umana, non può che essere una scienza in terza persona; lo stesso discorso, in un’ ottica non clinica, può essere fatto per lo studio della personalità. In questi casi, ed è corretto che sia così, l' oggetto di studio del ricercatore è l’ insieme dei comportamenti che co-occorrono in modi simili in diversi individui, e delle cause che li producono. Inoltre, queste cause possono essere sia storiche (dipendenti cioè dai modi di tradurre l' esperienza in racconto), sia non-storiche (dipendenti, in questo caso, da accidenti fisici o da alterazioni genetiche che accadono al di là di ogni narrazione individuale). Ma, se vogliamo capire – e curare – il singolo individuo, siamo logicamente obbligati ad associare a quanto sopra una metodologia di indagine in prima persona.
Mentre la psicopatologia ci offre degli universali della sofferenza umana, soltanto attraverso l' analisi dell’ esperienza del singolo paziente (ipseità), così come essa emerge nel più vasto quadro del suo racconto (identità narrativa), e tenendo conto del contesto storico-culturale di appartenenza (rete coerente di rimandi), noi saremo in grado di cogliere lo specifico significato di quei modi comportamentali (identità personale). Infatti, se la psicopatologia consegue a qualche forma di alterazione dell' identità personale, la psicopatologia descrittiva deve spiegare i modi ideali di questa alterazione (sintomi, segni ecc.), mentre la psicopatologia interpretativa deve spiegare come i modi individuali che osserviamo nello specifico individuo si sono strutturati, e tutto questo è possibile comprenderlo soltanto a partire dalla specifica storia di vita.
Forse, a questo punto, risulta più chiaro comprendere la differenza ontologica (l' uomo non può essere studiato con le stesse categorie utilizzate per studiare le cose), alla quale avevamo fatto riferimento: l' essere umano non è totalmente comprensibile alla sola luce delle sue qualità osservabili e/o riconducibili a questa o quella categoria. L' essere umano è una carne che si fa storia in uno specifico ambiente culturale. L' essere umano è un progetto-gettato, dice Heidegger, e questo implica che la differenza tra colui che scrive queste righe e colui che le sta leggendo non può essere compresa alla sola luce della differente fisiologia o attraverso l' applicazione di questa o quella categoria personologica. Categorizzare significa mettere insieme cose o persone secondo quello che hanno di medesimo, abolendo la diversità. Ma, per comprendere il singolo essere umano io ho bisogno proprio di cogliere la sua specificità, altrimenti non potrei mai individuarlo! Infatti, se quello che contraddistingue ognuno di noi è la sua individualità, nessuna categorizzazione statica o processuale dei suoi comportamenti ci condurrà mai a comprendere quello specifico essere umano.
Mentre è necessario trattare l' uomo come fosse una "cosa-macchina-processo" nel caso della maggior parte della scienza medica (l’ azione di uno specifico virus nell’ organismo umano dipende da caratteristiche fisiologiche individuali e dalla natura del virus, al di là della specifica identità narrativa, quindi diagnosi e cura possono essere studiate in terza persona), invece nel caso della sofferenza individuale lo sviluppo di questa o quella psicopatologia consegue sempre a motivi individuali, specifici, storico-individuali. Il fatto che tra gli esseri umano esistano delle similarità nella genesi e nella fenomenologia di questi motivi individuali, ai fini della scienza psicologica non è sufficiente per dire tutto quello che c’è da dire sullo specifico individuo.

 

 

NEUROPSICOPATOLOGIA


Il cambiamento di visione dello stesso oggetto di studio della psicoterapia, che nel nostro caso coincide con la presa in considerazione di un soggetto di studio, e la necessità di far adeguatamente dialogare le discipline che adottano il metodo della scienza naturale, con quelle che studiano l' uomo in prima persona, conduce a un cambiamento di prospettiva circa la visione stessa della sofferenza umana. Essendo l' uomo corpo tra i corpi, quindi soggetto alle leggi della natura al pari di qualsiasi altro corpo, ma anche un progetto-gettato, ossia un incessante essere oltre se stesso nella continua riconfigurazione storica della propria esperienza, allora la patologia psichiatrica può conseguire sia ad accidenti organici che accadono al di là degli specifici e individuali modi di riconfigurare l’ esperienza (cause fisiche che producono le cosiddette patologie organiche, meglio inquadrabili come patologie non storiche), oppure la patologia psichiatrica può conseguire a qualche alterazione dell’ identità personale conseguente agli specifici modi di riconfigurare l’esperienza (patologie cosiddette funzionali-psicologiche, meglio inquadrabili come patologie storiche). Inoltre, il nostro essere anche corpo tra i corpi, implica la possibilità che sin dalla nascita il nostro essere-nel-mondo accada secondo modalità organismiche difettuali, con conseguenti alterazioni dello sviluppo del sé e dell' identità personale (patologie cosiddette genetiche che implicano una primaria alterazione dell’ ipseità). Da questo punto di vista possiamo delineare il cosiddetto continuum neuropsicopatologico, all’ interno del quale si dispiegano le diverse patologie mentali. A un estremo troviamo le patologie non storiche (quelle che accadono nel silenzio del racconto, es.: ictus, trauma cranico da incidente ecc., ossia quelle patologie che non sono veicolate dall’ identità narrativa del soggetto), all’ altro estremo del continuum troviamo le patologie storiche (quelle che conseguono agli specifici e individuali modi di riconfigurare l' esperienza). Naturalmente, la maggior parte delle patologie si troverà nella via di mezzo del continuum. Con questo approccio si compie un passo avanti decisivo nel superare qualunque forma di dualismo cartesiano, ma si evita anche di cadere in non sensate forme di materialismo riduttivista (il comportamento è totalmente comprensibile alla luce della sua fisiologia), o di idealismo nichilista o costruttivismo radicale (non esiste una realtà esterna al di là delle nostre rappresentazioni).

 

 

PSICOTERAPIA


L' obiettivo della psicoterapia è la trasformazione di Sé, ossia il cambiamento dei modi di fare esperienza, e non soltanto la modificazione dei modi di raccontarsi l’ esperienza stessa. Il cambiamento dei modi esperienziali accade nel momento in cui il paziente, attraverso il racconto di sé in terapia e nel corso dei compiti a casa, riconosce – sentendoli- dei suoi specifici modi esperienziali che o non erano stati identitariamente riconfigurati, oppure non erano stati affatto riconfigurati narrativamente. Naturalmente l’ approccio terapeutico dovrà tenere conto delle specifiche psicopatologie alle quali vuole dare risposta, pur facendo emergere le stesse attraverso la storia di vita del paziente e al di là di faziose e superficiali categorie pre-costituite. Infatti, l' approccio terapeutico si struttura in modi differenti a seconda che il paziente presenti una alterazione dell’ identità personale fortemente storicizzata (es.: disturbi di personalità), oppure una patologia i cui motivi vanno ricercati in uno o pochi eventi esistenziali acuti (es.: disturbo post-traumatico da stress). Ai soli fini esemplificativi, poiché il tema è estremamente articolato e richiede il riferimento alla ricerca in psicopatologia prodotta dalle neuroscienze, dalla psicologia clinica ecc., e rimandando il lettore ai testi di Arciero e Bondolfi (2009) e Liccione (2011), pensiamo all’ideal-tipo della patologia ipocondriaca: una persona, nel corso della vita o in seguito a un evento storico acuto, può progressivamente o istantaneamente non riconoscere un proprio stato ansioso nella sua manifestazione esperienziale (tachicardia, senso di soffocamento, sudorazione eccessiva ecc.). Il non riconoscimento di uno stato esperienziale significa che quella determinata esperienza al posto di essere identitariamente riconfigurata (ad esempio: “sono ansioso perché tra due giorni dovrò sostenere un esame”), o non viene riconosciuta (la persona si avverte in uno stato di alterazione fisica senza collegarla all evento che l' ha prodotta), oppure l' esperienza stessa viene riconfigurata non identitariamente (i segnali fisici dell’ ansia vengono scambiati per un infarto incipiente).  www.slop.it

 

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